Adelphi
Milano, 1987, pagine 106
Ecco il racconto che a buon diritto dovrebbe diventare il manifesto del buon fannullone.
Solamente un centinaio di pagine, ma che diventano duecento, trecento, mille pagine ogni volta che lo si rilegge, tanto è denso e ricco di stimoli e suggestioni.
Fresco, ironico, paradossale, uno di quei racconti felici che provocano il presentimento della perfezione.
L’autore stesso racconta in prima persona la sua passeggiata: la gioia dell’incontro, il fascino dell’avventura fra gli angoletti del quotidiano, il disprezzo per le automobili maleodoranti che passano velocissime “davanti a tutte le immagini e gli oggetti che la nostra bella terra ci offre”.
Complice l’immaginazione - illusione che consola e che allontana dalle proprie miserie e solitudini almeno il tempo di una passeggiata - il racconto diventa a tratti visionario, rivelandosi nell’insieme emblematico.
Si potrebbe ravvisare in esso, infatti, un’allegoria esistenziale, ma suggerita con la grazia dell’involontarietà, come se non fosse il fine, ma la naturale conseguenza -per nulla necessaria - di una misurata narrazione.
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